Camomilla alle ore 20.00
poi mi industrierò di dormire
vorrei strapparmi il pannolone di dosso
invece lo sopporto, anche questo, anche questo
ci sono pur sempre le rose, ci sono pur sempre i gerani
chi lo diceva?
sarà vero, poi?
Camomilla alle ore 20.00
poi mi industrierò di dormire
vorrei strapparmi il pannolone di dosso
invece lo sopporto, anche questo, anche questo
ci sono pur sempre le rose, ci sono pur sempre i gerani
chi lo diceva?
sarà vero, poi?
A tracciar cerchi
si passa la vita
a costruire ponti dopo aver osservato stelle e correnti
a demolirli in una notte, come ladri, come assassini di se stessi
altari si erigono dentro di noi, tacitamente
occorre distruggerli quando li scorgiamo
muniti di mazza, muniti di ascia
attendiamo di poter abbattere il nostro albero
e contare i cerchi cresciuti nel suo tronco.
La mia stanza è in fondo al corridoio
quindi non mi illudo ogni volta che, lontano,
arriva qualcuno,
gli altri sì, dalle altre stanze allungano colli rugosi, dai letti, dalle carrozzelle
a decifrare il rumore dei passi
è qualcuno per me?
non si può non sperarci
quest’anno la primavera è a brandelli
di ricordi, di odori.
Si procede verso una terra di solitudine
si resta gli ultimi della stirpe, gli ultimi della razza
nessuno con cui ricordare i giochi d’infanzia – le cene prima del 1940
a che vale restare, a che vale il respiro
i suoni non sono più quelli di un tempo
filtrati dagli anni, dai medicinali, dalle luci di questa stanza d’ospedale
tornerò questa volta alla mia casa?
A lungo ho temuto il calore umano,
l’amicizia è più difficile dell’amore
(io l’ho tradita, io lo so, e di notte ancora ritorna)
ma questo tempo è fatto di persone
e troppo ne ho perduto.
Le ore e il riso sono gioielli in tasca,
grano che germoglia.
Le ginestre osservavano il sole, assorte.
L’acqua imparava a riconoscersi, a ricostruire il proprio colore.
Il verde si dipanava piano, attonito, svelandosi alla sua stessa meraviglia.
E gli aranci, i limoni, ossessivi esibivano frutti, quasi con angoscia gridavano “Guardateci! Osservateci! Come potete non vedere la nostra bellezza?”
Io avvertivo una fuga di atomi da me stessa, svaporavo, colavo in rugiada.
Me ne sono resa conto, l’altra sera: ci sono voluti anni per imparare il silenzio, per chiudere nel cassetto tutte le penne cariche e tenere a portata di mano quelle che non funzionano più. Ce ne ho messo, del tempo, per apprendere a tacere, per convincermi a lasciar stare, per considerare la necessità di chiudere certi cicli, per punirmi delle sofferenze inflitte. Alla punizione non credo più da tempo, ma l’effetto allora voluto oggi è raggiunto.
Il nome di questo luogo, giardino recluso, fonte sigillata di (supposte) delizie, è stato scelto d’istinto, senza esitazione, senza quasi pensarci. Non avrei potuto trovarne uno più adatto a rifletterci per anni. E ci sono tali rovi, intorno, non piantati, quelli, ma incoraggiati a crescere, ed io li curo come fossero i fiori cui tengo di più. Svanire, nascondersi, confondersi: disorientare. Ecco lo scopo. Incapace di mordere chi si avvicina, chi lo direbbe mai, di me? incapace di mordere!, ho affinato però, senza accorgermene, la capacità di sviare il discorso e all’occorrenza negare senza battere ciglio alla domanda diretta, la facoltà di sorridere a labbra chiuse. Mi stupisco io stessa di quanto bene funzioni. Sono stata brava a indurmi a tacere, adesso mi è perfettamente naturale.
Le bambine portano i capelli sciolti, con un nastro, un fermaglio che brilla fra le ciocche. Continue Reading »
Non potrò leggere con la velocità, e voracità, che mi sono consuete.
La scrittura è tesa, uniforme come la superficie del mare, mai immobile. Tersa, con qualche sbavatura, lirica. Un viaggio nelle sfaccettature della sensualità non banale, mai volgare. Una visione profondamente retta, quella che esamina il ruolo di vittima e carnefice senza soluzione di continuità. Sentirsi carnefice, oltre che vittima, permette di pensare ai propri errori: è una visione di profondo rispetto nei confronti degli altri.
Mi piace sempre cercare i termini ricorrenti di uno scrittore, quelli amati, si direbbe, inconsapevolmente, o forse contro la propria volontà (“postutto” per Umberto Eco, per fare un esempio). Qui sono, finora: latte, soave, osceno/oscenamente. Ricorrono le superfici morbide, i colori algidi, chiari, forse non colori.
La collana è curata da Giulio Mozzi. Mi interrogo sulle ragioni della sua approvazione, se lui ha approvato il testo, e le conclusioni non mi piacciono.
Io sto amando questo libro, in ogni caso, per tutt’altre ragioni. Credo sia stato scritto per tutt’altre ragioni. Scrivo questi appunti per non dimenticare, per poterci tornare, da altri luoghi.
Dalle Trecento Poesie Tang – autore Chang Jian
Il chiarore del mattino penetra nel tempio
– il sole appena sorto illumina le cime degli alberi –
un sentiero contorto mi conduce alla quiete dell’eremo buddista,
nel fitto di alberi e fiori.
Più vivi, gli uccelli, di luce montana
si svuota l’anima tra riflessi profondi
cessano i diecimila suoni
solo rintocca la campana.