Me ne sono resa conto, l’altra sera: ci sono voluti anni per imparare il silenzio, per chiudere nel cassetto tutte le penne cariche e tenere a portata di mano quelle che non funzionano più. Ce ne ho messo, del tempo, per apprendere a tacere, per convincermi a lasciar stare, per considerare la necessità di chiudere certi cicli, per punirmi delle sofferenze inflitte. Alla punizione non credo più da tempo, ma l’effetto allora voluto oggi è raggiunto.
Il nome di questo luogo, giardino recluso, fonte sigillata di (supposte) delizie, è stato scelto d’istinto, senza esitazione, senza quasi pensarci. Non avrei potuto trovarne uno più adatto a rifletterci per anni. E ci sono tali rovi, intorno, non piantati, quelli, ma incoraggiati a crescere, ed io li curo come fossero i fiori cui tengo di più. Svanire, nascondersi, confondersi: disorientare. Ecco lo scopo. Incapace di mordere chi si avvicina, chi lo direbbe mai, di me? incapace di mordere!, ho affinato però, senza accorgermene, la capacità di sviare il discorso e all’occorrenza negare senza battere ciglio alla domanda diretta, la facoltà di sorridere a labbra chiuse. Mi stupisco io stessa di quanto bene funzioni. Sono stata brava a indurmi a tacere, adesso mi è perfettamente naturale.
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