Fin tanto che l’onda dove sei nata ti cullerà,
non desiderare mai di avere un’anima, certo no,
perché un’anima è il peccato.
Come molte sorelle, non necessariamente acquatiche ma certo dotate di poteri misteriosi, le rusalke sono bianche e verdi. Il bianco è della pelle che si scorge appena, il verde è dei lunghi capelli, gemelli inquietanti delle alghe che si snodano piano sul fondo dei fossi, nelle lanche dei fiumi, al bordo degli stagni: colori, questi, caratteristici delle donne magiche e ambigue che percorrono le storie dell’infanzia e la storia del mondo.
E’ molto raro che le fate e le sirene indossino gioielli e, se vestono abiti, sono quasi sempre bianchi o verdi. (Qualcuno dice che le rusalke vestano lunghe gonne di colore verde, solo la domenica di Pasqua.)
Alcuni artisti le hanno pensate come donne più domestiche, decorosamente abbigliate con ampie gonne, corsetti e copricapi, a svelare soltanto un polpaccio formoso; sono immagini che hanno il sapore di un tentativo di rassicurare se stessi e il mondo, di ridurre ad un minimo denominatore confortante una materia fluida e sfuggente.
Il bianco e il verde, invece, disorientano; sono i colori della luce bianca della luna, che svia le forme, le annulla, e dell’acqua, dell’erba, delle foglie che nascondono e trasformano, colori che costruiscono confini psicologici inevitabili intorno al pensiero e alla riflessione. La nostra mente è obbligata a confrontarsi con un mondo senza cesure nette, fatto di allusioni più che di affermazioni. Ma cosa ci si può attendere, esattamente, dal bianco e dal verde?
Le rusalke attendono alla soglia dell’acqua e attraggono nell’altro mondo: abitano dunque un luogo incerto, sul quale è lecito speculare, immaginando, oltre i confini, meraviglie e morte.
Prendiamo ad esempio la Rusalka che canta nell’opera omonima di Antonin Dvorak. Ispirata alle favole popolari ceche (e in ceco fu scritto il libretto), germogliata nell’humus ottocentesco, fu rappresentata per la prima volta nel 1901. La trama, nelle linee essenziali, ricalca storie popolari: la rusalka è una creatura acquatica che diventa un demone mortifero in seguito al tradimento dell’uomo per cui ha rinunciato alla propria natura. Figlia dello spirito di un lago (e molti di questi piccoli laghi, larghi pochi metri ma spesso piuttosto profondi, erano il paesaggio che circondava la casa di Dvorak mentre componeva), rinuncia alla propria voce e sfida l’eterna dannazione con l’aiuto di una strega, pur di sposare e seguire un uomo mortale nel suo mondo. Il tradimento dell’uomo incostante, paventato fin dal primo momento, costringe la rusalka a tornare al suo stagno, tramutata in uno spirito di morte. Quando il principe torna pentito a cercarla, accetta da lei il bacio d’amore che lo priverà nello stesso momento della vita. I sacrifici sono tutti inutili, sentenzia il padre della rusalka.
Con la sua Sirenetta anche Andersen aveva lavorato su questa tradizione, elaborando un finale in parte consolatorio, di matrice cristiana, ma più ancora legato alle proprie personali aspirazioni e alla costante esplorazione del tema dell’escluso.
L’aspetto straordinario di una materia così duttile e sfuggente risiede proprio nelle sue infinite possibilità di lettura: Andersen, Dvorak, Puskin, Fouqué-La Motte, Dargomyžskij e altri hanno ciascuno letto e raccontato fatti scelti, trascurando talvolta alcuni personaggi, cancellando o intensificando sfumature, rispettando rigorosamente le linee portanti della vicenda e al tempo stesso imprimendo una nota unica, quella del loro personale talento. Un’operazione, per finalità e modalità, non diversa dalla fanfiction moderna.
Il mondo dell’acqua alletta e perseguita l’immaginazione dell’uomo da sempre: forse anche il ragazzo che si getta nell’acqua nella Tomba del Tuffatore di Paestum aveva visto qualcosa di assimilabile ad una sirena? Un richiamo divino, il sorriso di un dio che brilla là in fondo? Certo è che il passaggio attraverso lo specchio dell’acqua (e gli specchi vengono spesso impugnati da sirene e melusine) prelude ad una percezione diversa dell’esistenza, ad un abbandono totale che corrisponde alla concentrazione completa del proprio essere: in questo consiste l’arte del tuffo. Passare attraverso l’acqua diventa un atto assertivo, non rinunciatario, ma la differenza tra l’immersione nell’acqua e l’uscita dall’acqua è drastica. Dall’acqua si esce comunque diversi – quando si esce.
Le storie, innumerevoli, scritte sulle donne d’acqua, sono costruite su passaggi logici comuni: la donna magica che esce dall’acqua cerca un’anima immortale e l’amore (gli spiriti e le fate sono, secondo alcune tradizioni, destinati alla dannazione eterna dopo il Giudizio Universale, mentre secondo altre si dissolveranno in vapori scintillanti…e la Sirenetta dovrebbe sciogliersi in schiuma del mare); rinuncia, nel far questo, ad aspetti fondamentali del suo esistere (la voce, l’immortalità, la capacità di compiere prodigi…); e viene tradita, o incompresa, o sfruttata. Presto o tardi deve tornare al suo mondo, ma il suo destino è irrimediabilmente intaccato.
Le rusalke si differenziano in quanto originariamente sono donne, umane, mortali a tutti gli effetti (in questo Dvorak si discosta dalla tradizione).
La metamorfosi in donne d’acqua gelide e possenti (l’espressione è di Puskin) avviene con l’abbandono di questa vita, per annegamento, volontario e non: donne e fanciulle disprezzate, poco amate, o addirittura assassinate, acquisiscono nel passaggio attraverso lo specchio d’acqua facoltà del tutto nuove, e spesso aspirano alla vendetta.
I talenti delle rusalke sono innumerevoli: hanno favole e conchiglie per i bambini, sguardi d’inesorabile seduzione per uomini giovani, promesse di pace e silenzio per i vecchi. Cantano con voci squisite, scuotono le chiome bagnate al vento notturno. Le donne sono solitamente immuni al loro richiamo.
Le rusalke russe scelgono di vivere nei fiumi, soprattutto nel Dnepr, largo come un mare e quieto come uno stagno. Puskin, informatissimo, dice che vivono in palazzi costruiti sul fondo sabbioso del fiume e passano le giornate a filare con fuso e conocchia, per poi uscire dall’acqua quando si fa sera.
Puskin, cui erano erano molto care le vecchie favole ascoltate durante l’infanzia, elaborò in più modi il tema della rusalka. Ad esempio scrisse un poema dal sapore erotico, in cui un anziano eremita cede all’intollerabile delizia della rusalka che emerge dalle acque, perdendo la vita.
Ma soprattutto scrisse un’opera teatrale rimasta incompiuta (anche se di recente pare sia comparso un manoscritto contenente anche l’ultima scena), in cui la rusalka protagonista è in origine una fanciulla abbandonata dall’amante che, pur consapevole del fatto che ella attende un figlio da lui, la lascia in favore di una sposa nobile e ricca; furiosa d’odio e disperazione, la ragazza si uccide gettandosi nel fiume; si risveglia sul fondo del Dnepr, regina delle rusalke, e lì partorisce la figlia che aveva in grembo.
Anni dopo il rimpianto e il rimorso riconducono il principe, che non ha trovato felicità nel suo matrimonio, alle rive del fiume dove aveva amato la fanciulla. La rusalka, che l’ha atteso per lunghi anni, lo attira a poco a poco, facendogli udire la sua voce, convincendolo della sua vicinanza, utilizzando la figlia per condurlo a sé. L’opera si interrompe proprio nel bel mezzo di un monologo, mentre la rusalka prepara la vendetta. Mi piace pensare che Puskin fosse incerto, che neppure lui sapesse decidere, al postutto, se il fato dell’uomo fosse di elezione o perdizione.
È da notare come nel caso dell’opera di Dvorak, e pure in quella di Puskin, lo stato di imperturbabilità sia connesso alla natura magica. La Rusalka di Dvorak perde la sua serenità compatta e soprannaturale quando desidera l’amore di un uomo; la ragazza di Puskin, al contrario, abbandona amarezza, rimpianti e dolore e diventa consapevole di se stessa, capace di scegliere, quando muta natura gettandosi nel fiume.
Chi assiste, al di qua del libro o della partitura musicale, non può restare indenne. Dopo aver conosciuto le rusalke, le piante palustri, la lenticchia d’acqua, le alghe appena sotto la superficie di uno stagno assumono una vitalità segreta, dànno l’impressione di osservarci appena voltiamo le spalle…
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