Provo a fare una sintesi, azzardata quanto ogni sintesi: il giardino è una delle più evolute contraddizioni. La Natura, sottoposta ad un accurato, cauto tentativo di domesticazione, anche e soprattutto nel caso dei giardini costruiti per imitarne lo stato selvaggio, la wilderness. I giardini irlandesi sembrano essere particolarmente famosi; io ricordo un orto botanico in Bretagna, affacciato sull’Atlantico, nel mese di aprile, come un fulgore di sorprese ad ogni angolo – ecco, il giardino è sorpresa nascosta in ogni foglia. Tuttavia, quando ne uscii, mi parve altrettanto sorprendente uno sterminato campo di carciofi al di là della strada, una sorta di foresta folta e intricata e perfettamente docile alla mano.
Non riesco ad amare i pranzi in giardino, il giardino non è un luogo ove mangiare. E’ un viaggio, una fuga, un rifugio, una seduzione, un pericolo. I giardini all’italiana, inquietanti per le statue dagli occhi ciechi che tuttavia sembrano spiarti, per le siepi di bosso sagomate, labirinti di verde dal vago odore sepolcrale, e per le fontane nascoste, con pallide ombre di foglie; l’acqua obbligata a diventare un divertimento, un gioco, uno spruzzo – ed oggi a gettarsi un archi di gocce minute come pulviscolo dagli irrigatori rotanti verso siepi e steli. I giardini cinesi e di conseguenza quelli giapponesi, fatti per la contemplazione o per il moto, con ponti arcuati, vibrare di salici, baluginare di acque o di sassi bianchi, pesci scelti con cura. Lì ti soffermi accanto ad un attimo, assisti alla nascita di una tua nostalgia. Un crisantemo…
Penso al giardino anche come luogo di delizie reali, come arance o mele sospese ai rami. Il mio carissimo zio Franco sosteneva che solo gli alberi da frutto hanno una vera ragione d’essere: senza giungere a tanto ammetto che un melo, anche gracile, ma colmo di frutti è uno spettacolo difficile da dimenticare. I cachi carichi di colore che piegano i rami neri nel cortile di un istituto universitario mi sorprendono e rincuorano.
Pensavo anche ai salici piangenti, a quanta commozione mi smuovono dentro; ai fiori da bulbo, ai fiori del melograno dalla tardiva sfumatura rosso arancio, alla fantasmagoria delle rose, che sembrano rendere inevitabile la resa. Surrender into the roses, go under the ivy…
Penso che mai sarei in grado di progettare un giardino perché a nulla saprei rinunciare; nel giardino di casa avevo chiesto la magnolia, il salice, la betulla dal tronco bianco argento (non ottenni nessuno dei tre).
Nei giardini le visioni riempiono gli occhi più della realtà: è quel che credi di scorgere dietro un albero, il rumore che credi di udire in un cespuglio, il dondolìo di un fiore in assenza di vento – tutto questo turba l’efficacia del mondo come un gioco di prestigio cui abbandonarsi, e nasce da un ricordo di beatitudine mai vissuta eppure presentita.
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