Voglio essere un tuffatore
per rinascere ogni volta
dall’acqua all’aria.
Qualcosa di simile deve aver pensato l’efebo che si getta in acqua nell’affresco della Tomba del Tuffatore. Una rinascita, la scoperta di un ardimento nuovo, inimmaginato (la benedizione di un dio nel fondo delle acque vale il rischio, in ogni caso).
Un luogo elevato da cui tuffarsi è il posto preferibile per contemplare il mondo. I colori assumono una curva nuova, il canto degli uccelli è più remoto, curiosamente, qui, vicino alla sua origine. Ci si sente possenti, credo, infinitamente possenti, un attimo prima di rinunciare a se stessi, nell’aria, non abbandonandosi ma concentrando il sapere di muscoli ossa e tendini. L’abbandono totale corrisponde ad una concentrazione completa di sé.
Tutto è nitido, definito, i colori e le forme semplificati. Tutto si riflette sull’acqua, tutto è compreso nell’acqua, che attende serena. Non rivela, non obbliga, non attira, non respinge: semplicemente offre una possibilità. Nessuno può sapere, prima del tuffo, se sarà o meno eletto, se la divinità tenderà la mano. Tutto dipende dalla precisione dell’arco, dal taglio delle mani sulla superficie, dall’assenza di timore, dalla vittoria sul timore o dalla sua accettazione.
Il tuffatore si basta, basta a se stesso e sa che non tornerà – o comunque non tornerà uguale a prima. Ha superato gli umori, l’adesione al sangue e ai suoi affetti, al bisogno del sole. Ha osservato con cura minuziosa l’albero che si protende sull’acqua, i rami che si muovono piano verso di lui. Ora è pieno di gioia e di distacco, si sente vestito di candore, di ali impalpabili e ha negli occhi tutta l’aria del mondo.
Presente un nuovo canto, una nuova musica che nascerà tutt’intorno, dopo il suo tuffo. Sa che la musica nasce per ricordo dei morti ma non si è mai sentito così vivo, così fatto di luce, ora che sta per dimenticare, ora che sta per riflettersi un’ultima volta. Ora trapasserà lo specchio.
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