Demetra che conduce la stagione apre le foglie, inturgidisce boccioli, prevede l’aroma dei frutti nel nero intenso della terra da lei risvegliata. Si compiace di solchi precisi, del ritmo dell’aratura. Appena fioriscono i papaveri scarlatti nel grano se ne adorna. Demetra si gloria di manipoli di spighe e le osserva crescere con l’occhio del padrone, mentre sua figlia Kore e le compagne ancora raccolgono fiori selvatici. La fanciulla coglie, carpisce corolle. Non coltiva, non produce. Rapita nel mezzo del gioco – ma non finisce sempre così, l’infanzia? – non resisterà ai rossi chicchi del melograno offerti da Ades, luccicanti come gioielli nel buio dei morti, diverrà sovrana fredda e possente.
(Le sue compagne piangeranno e la cercheranno senza più ritrovarla. Qualcuno dice che Demetra, implacabile, le trasformerà in sirene per punirle di non aver protetto la figlia).
Per Kore, tornare alla luce e alla madre, ogni sei mesi, è all’inizio una tortura – tutto quel biancore, come uno sguardo impietoso che la fruga, il calore calcinante cui non è più abituata, l’odore del vento – così come sei mesi più tardi è tormentoso il ritorno al grigio uniforme, all’immobilità dei suoni, al trono di pietra, all’amore impaziente del marito che pure desidera.
In altra terra, in altro tempo Circe ha prevenuto l’arrivo degli uomini, si difende dalla loro invasione nei suoi boschi, respinge la fatica e la civiltà coltivando una cosa soltanto: il suo divino talento. Animali la circondano, ammansiti ma non addomesticati. Teme gli uomini ma si è fatta una ragione di questo timore, l’ha dipanato in lunghi anni immortali. Convive con il suo timore e il suo potere: i suoi infusi e le sue bevande brillano nelle coppe più del vino. Per lei , come per tante altre prima e dopo di lei, la solitudine è una condizione essenziale dell’esistere (ha accolto uomini, nel suo letto, con blanda curiosità).
Morgana nasce non col dono ma con la dannazione della magia.
Ha pensato talvolta a quanto le sarebbe piaciuto nascere solo con la capacità di danzare, di intrecciarsi i capelli, di suonare il flauto. Non questo nero dono, quest’odio disarmante che tramuta tutto l’amore in cenere.
Nel passeggiare sotto i meli di Avalon, lasciando indietro le silenziose, inutili compagne, si immerge nel dolore di questa solitudine che non ha valore alcuno, non le offre piacere. La sua magia ha cessato di emozionarla molto tempo fa, fin dai tempi delle lezioni impartitele da Merlino. Osservando la sfera armillare, assorta nel potere dei calcoli, si era sentita incredibilmente vecchia, lei bambina di tredici anni, vecchia come le pietre della foresta in confronto alle foglie di ogni primavera.
Adesso attende l’arrivo della barca che porterà ad Avalon il corpo di Artù. Non più inganni, malvagità, sguardi malevoli da dietro la tenda – tutto quello che ha fatto, l’ha fatto per invidia o per noia? Perché tutto finisse presto, o almeno un poco prima del tempo previsto? Non sa darsi una risposta. I fiori di melo cadono, di quando in quando. Tace, nel silenzio del frutteto sembra assaporare il silenzio che verrà alla fine dell’estate, alla fine del suo mondo.
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