n.11

E nasce l’imbarazzo,

un’onda che vorresti pesante come velluto scuro,

e osservi il tavolo desiderando di finirci sotto

e fissi il bicchiere dell’acqua

e lo svuoti a sorsi affrettati insapori

– lo sforzo di controllarsi fa venir sete –

e intanto lei parla, convinta

– è la pena, la mestizia, non riesci a provare fastidio –

vorresti solo che finisse

e non osi incrociare lo sguardo degli altri

– temi di vedere non il sorriso nascosto ma il tuo stesso allibito pensiero.

Intanto palpiti e presagi e carni ardenti e sussulti e languori senza sosta

– lettere incatenate che vorresti liberare, far coriandoli di quei dannati fogli –

e finalmente torna al tavolo, tutta contenta,

e la tua ormai famosa perfidia non trova parole, non trova lame

– è umanità, calda e penosa, dolente,

vorresti batterle un colpetto sulla mano,

sorridere con approvazione

ma non puoi

perché, che diamine,

quelle poesie, davvero, erano indicibilmente brutte.

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