E nasce l’imbarazzo,
un’onda che vorresti pesante come velluto scuro,
e osservi il tavolo desiderando di finirci sotto
e fissi il bicchiere dell’acqua
e lo svuoti a sorsi affrettati insapori
– lo sforzo di controllarsi fa venir sete –
e intanto lei parla, convinta
– è la pena, la mestizia, non riesci a provare fastidio –
vorresti solo che finisse
e non osi incrociare lo sguardo degli altri
– temi di vedere non il sorriso nascosto ma il tuo stesso allibito pensiero.
Intanto palpiti e presagi e carni ardenti e sussulti e languori senza sosta
– lettere incatenate che vorresti liberare, far coriandoli di quei dannati fogli –
e finalmente torna al tavolo, tutta contenta,
e la tua ormai famosa perfidia non trova parole, non trova lame
– è umanità, calda e penosa, dolente,
vorresti batterle un colpetto sulla mano,
sorridere con approvazione
ma non puoi
perché, che diamine,
quelle poesie, davvero, erano indicibilmente brutte.
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