“Racconto d’autunno” di Tommaso Landolfi è stata una delle letture indimenticate della mia adolescenza, assorbito così profondamente, così tacitamente, che il pezzo che segue fu scritto senza che mi rendessi conto di quello che avevo veramente in cuore – il ricordo del libro. Lo capii anni dopo, e solo ora ho deciso che si tratta di omaggio e non di plagio.
Si stava facendo buio un’altra volta. L’oscurità saliva in silenzio, quasi approfittando del vuoto che circondava ogni cosa. Aveva perso il conto dei giorni. Solo, ogni pomeriggio sedeva sul largo davanzale interno alla finestra, scostava le tende di pizzo pesante e guardava giù, nella valle, il buio che le veniva incontro.
Spesso si immaginava vista da fuori, vista dal buio: una figura avvolta in vetusti abiti scuri con larghi colletti e polsini di un bianco immacolato; anche i capelli, pesanti e sontuosi, erano avvolti in spesse trecce alla sommità del capo. Una donna dietro alte vetrate gotiche, una mano posata sulla liscia superficie fredda.
Era così lungo l’inverno! Ne aveva sentito ogni avvisaglia, fin dai primi cenni dorati sui boschi, dalle prime nuvole viola d’ottobre. Quando aveva visto il sole gonfiarsi di rosso e penetrare attraverso le vetrate senza scaldare più, aveva sentito una stretta al cuore. E l’ansia le aveva riempito gli occhi, mentre le nuvole si facevano sempre più dense e i colori sgocciolavano via, sbiadivano senza che riuscisse a fermarli.
Aveva indossato abiti scuri dopo la prima brinata: si era alzata un mattino e tutto aveva perso colore, svanendo in un’unica forma, come pagine strappate abbandonate alla polvere. Con l’arrivo delle nebbie dense e impalpabili, che le gonfiavano di umidità le vesti e le imperlavano le ciglia di gocce gelide, si era raccolta i capelli. Era stato un gesto lento, attento, con lunghi sguardi ai riflessi oro antico delle sue chiome. Le aveva legate in nodi stretti e lucidi e poi si era alzata, soddisfatta. Ora era pronta per l’inverno.
Conosceva ogni cima d’albero, ogni piega del sentiero che scorgeva dalla sua casa. Sapeva dove andavano ad abbeverarsi i cervi, dove facevano il nido i corvi – un po’ più su, dove le lisce pareti di roccia nuda proteggevano gli alberi dai venti. Sapeva esattamente a che ora si alzava il vento – c’era una calma improvvisa, nelle sue vene, un attimo prima che il vento cominciasse a urlare – e dove si spiegava, a ondate a ondate vedeva gli alberi chinarsi debolmente, lamentarsi con gemiti flebili. Tutta la sua casa si riempiva d’inverno e di solitudine e la bruma si insinuava nonostante gli scuri fossero accuratamente chiusi e le tende energicamente tirate. Quando accendeva il fuoco, le sembrava quasi un gesto futile; i ceppi soffiavano umidità e sembravano rifiutare di accendersi. La tagliola della stagione non lasciava scampo: le radici delle rose, al limitare del muro, smuovendo appena quel che restava di rami e foglie, le chiedevano un aiuto che non poteva dare loro. Sosteneva fieramente i vapori azzurri dei crepuscoli. Era sola con la casa.
Sedeva alla finestra, per catturare la luce ovattata e farla durare il più a lungo possibile; col buio, moriva un po’ anche lei, il suo viso le ribatteva esangue; eppure, con lo svanire della luce, ecco, i contorni del suo viso si facevano sempre più nitidi, il fondo dei suoi occhi scuri sempre più vivido. L’attesa del sole sembrava dover esaurire tutte le sue forze; anche il peso dei capelli sulla fronte era sempre più gravoso. Ma non si stancava di guardare la valle, di nutrire la propria fiducia. A volte pensava che il sole sarebbe tornato solo se lei fosse rimasta vigile, senza stancarsi di contare i fiocchi di neve e le distese silenti. Le pareva che, se avesse deciso di passeggiare sulle cime degli alberi, la neve l’avrebbe sostenuta coi suoi morbidi cuscini insensibili. Osservava i cristalli di gelo alla finestra con le sopracciglia corrugate, per trarne presagi della stagione. Attendeva il buio, sperando che tardasse almeno di qualche minuto, come un uomo temuto e tuttavia preferibile alle stanze silenziose, di cui conosceva ogni sfumatura: i tondi blu e opachi del vetro piombato, leggermente imbarcati, la trama nel legno polito dello zoccolo della credenza, come un muso di animale. Il suo scialle sembrava vivo, morbido e scintillante nonostante gli anni, e solo le faceva compagnia.
Ormai non se l’aspettava più.
Eppure un mattino il sole filtrò vivo, e bruciò la nebbia e le brillò in viso; e lei levò le braccia e sciolse senza fretta i capelli, treccia dopo treccia, vi affondò le mani e li offrì al sole e la luce battè sulla luce del suo sorriso.
“E ora” pensò “cambierò vestito”.
Post a Comment