I dipinti di Dante Gabriel Rossetti smuovono in me un fondo di irritazione; ho da sempre l’impressione che chi ritrae donne di bellezza perfetta nasconda una profonda misoginia, paludando d’ammirazione pretese odiose: il disconoscimento di un’anima, la riduzione dell’essere femminile a oggetto posseduto, il cui unico privilegio è quello di essere contemplato – e collocato ove si voglia. Le modelle di questi pittori non sono certo dee eternate nell’esercizio della loro gloria, ma riflessi della loro ambizione, così come le modelle di oggi sono puri manichini che indossano risibili opere d’arte – gli abiti – che altri hanno fatto, che esse esibiscono a vantaggio dello stilista. Anche l’ipocrisia è la medesima: in entrambi i casi artisti e stilisti sostengono, implicitamente ed esplicitamente, di voler rendere le donne più belle, migliori, di voler rendere loro omaggio.
Rossetti, non dimentichiamolo, fece riaprire il sepolcro della moglie alcuni anni dopo la sua morte allo scopo di recuperare le poesie a lei dedicate e con lei sepolte: un episodio di egocentrismo da lasciare allibiti, altro che richiedere indietro l’anello di fidanzamento. Non le lasciò neppure ciò che aveva fatto solo per lei e che senza di lei mai sarebbe esistito.
A volte vorrei non conoscere la vita degli artisti di cui leggo o di cui osservo le opere: in questi giorni sto pensando appunto a Elizabeth Siddal, musa di Dante Gabriel Rossetti e del gruppo dei Preraffaelliti. Lei è l’Ofelia di Millais che fluttua tra i fiori, la donna che si affaccia da tanti quadri con le labbra rosse e tumide – il labbro inferiore come inciso verticalmente-, avvolta da chiome ondose di un color rame inverosimile. Di lei si ricordano le origini umili, l’ostilità della famiglia dell’amante e poi marito, e quei malanni così donneschi che l’epoca vittoriana citava solo sottovoce, ma citava per nome e cognome; l’aborto, l’abuso di laudano, la morte per eccessiva assunzione della droga e il sospetto, infamante per l’epoca, del suicidio. Ci sono lettere e testimonianze: uomini e donne che ne ricordano la figura snella ed elegante, l’atteggiamento cortese e riservato, gli occhi dalle larghe palpebre, l’abbigliamento semplice. Della sua vita sono noti anche troppi fatti: ma quasi nessuno ricorda che Elizabeth Siddal scriveva e dipingeva, benché godesse, in vita, del sostegno economico di un mecenate, John Ruskin.
Di lei è rimasto pochissimo; le poesie non furono mai pubblicate finché visse; delle opere pittoriche restano vari schizzi, alcuni acquerelli, un unico dipinto: il suo autoritratto. Non sembra che amasse molto la pubblicità; alcuni schizzi di Rossetti evocano momenti domestici piuttosto significativi: in uno appare il pittore mentre posa per lei, un secondo lavoro rievoca due scene: nella prima, lei nasconde dietro alcune tele un quadro che è evidente non vuole che il marito veda; nella seconda Rossetti stana il quadro dal suo nascondiglio.
Ma, per tornare all’autoritratto…abituata com’ero ai dipinti di Rossetti, è una delle opere più sconcertanti che mi sia capitato di vedere di recente. Su un fondo vellutato verde scuro, lei si affaccia e fissa l’interlocutore con occhi sicuri, dritto negli occhi, e lo sfida a riconoscerla.
Questa sono io, questa con l’abito nero (non i pepli dalle mille pieghe, non le tuniche sontuose), questa con le labbra chiuse e secche – e ancora quella curiosa incisione verticale del labbro inferiore – i miei capelli ordinatamente ammassati (non fingerò di volerti sedurre, io voglio che tu mi conosca), la carnagione più opaca, priva di quella artificiale levigatezza alabastrina di tanti, troppi quadri. Io, che mai ti guardo negli occhi da quei dipinti, qui ti osservo senza timore e senza illusione, senza inganni. Se vuoi conoscermi, questo dipinto devi osservare, non gli altri. E guardami negli occhi, mentre parlo.
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