Goethe, Yeats, Keats hanno in comune, a parte l’ovvio, il fatto di aver narrato di rapimenti.
Goethe scrisse Il Re degli Elfi (Erlkönig), che lessi per la prima volta nel libro di educazione musicale alle scuole medie e che credo non sarò mai in grado di leggere nell’originale. W. B. Yeats è l’autore di The Stolen Child. Keats scrisse La Belle Dame Sans Merci.
A loro volta le tre poesie hanno un elemento comune: tutte e tre sono state musicate; Il Re degli Elfi da Schubert, The Stolen Child da Loreena McKennitt – e successivamente da altri – e La Belle Dame sans Merci anche in italiano, da Angelo Branduardi, che ne ha ricavato una canzone stridula, opprimente ed efficace.
Il rapito nell’ultimo caso è un uomo, l’ultimo di una lunga serie, a quanto egli apprende dai suoi compagni di sventura. Ma pure i rapitori di bimbi, il re degli elfi e gli spiriti nottuni non sembrano preferire qualcuno a discapito di altri. Il bambino rapito non è un eletto o un privilegiato, ma solo l’ennesima vittima.
Nel Re degli Elfi Goethe dà voce all’angoscia di fronte alla malattia di un bambino e fa assistere, nella più totale impotenza (il lettore si identifica col padre), al delirio e all’agonia del piccolo, colpito a morte dal Re degli Elfi; il bambino avverte la sua presenza, sempre più chiaramente minacciosa, nonostante le promesse allettanti di giochi e sole fiori, laddove il padre ha un brivido di autentico terrore solo alla fine, che è improvvisa e brutale. Il bambino di Goethe è l’unico, dei tre rapiti, a ribellarsi al destino, a dibattersi per non essere sottratto all’abbraccio del padre.
Schubert ha creato una musica solenne e drammatica, che però a mio giudizio non esprime minimamente il timor panico che cresce, ma narra un fatto luttuoso come fosse già noto a chi ascolta. Schubert ha composto un necrologio: nessuno può ragionevolmente aspettarsi una fine differente.
Delle tre poesie, la più inquietante è ai miei occhi The Stolen Child. Il bambino entra in scena solo verso la fine, come se si stesse avvicinando alla cascata, agli alberi nel buio e alle dimore segrete delle fate. Ha gli occhi seri (Away with us he’s going, the solemn-eyed) e gli spiriti pronosticano che mai più udirà il suono rassicurante del bollitore sul focolare. Ciò che è più terribile di questi spiriti è la totale, innocente crudeltà con cui giocano con la schiuma della cascata, i riflessi della luna e il bambino, desiderosi di prenderlo per mano e sottrarlo al dolore del mondo degli uomini.
Immagino che la morte improvvisa dei bambini e la sua elaborazione abbiano fatto pensare persino alle fate e agli elfi, nel tentativo disperato di trovare consolazione (come se davvero il bambino fosse stato rapito ad un fato peggiore, come se davvero morisse giovane chi è caro agli dei…). Sia il bambino di Goethe sia quello di Yeats non sono infanti, neonati. Il primo parla, esprime chiaramente a parole la propria sofferenza fisica, il delirio, la paura, mentre il secondo è in grado di ascoltare il richiamo incantato e camminare fino a dove le fate lo attendono. Al bordo dell’acqua.
Nel caso del cavaliere rapito dalla Bella Dama, sembra essere lui stesso a tornare per narrare della propria vicenda di amante perduto. Ma come tutti sanno non c’è ritorno dalla morte, nè scampo al rimpianto: il cavaliere può tornare e raccontare la sua storia solo a chi, in cuor suo, già la conosce (come lo spettro del padre di Amleto, che torna a denunciare il proprio assassino al figlio che già sospetta).
Non sappiamo a chi parli il cavaliere, né chi sia a porgli le domande. Sappiamo che egli ha consegnato anima e vita alla Bella Dama e ha mangiato del cibo, fatato e squisito e selvatico, da lei offerto (come non sentire l’eco dei chicchi di melograno mangiati da Proserpina?). Quando la dama si lascia baciare egli è perduto, lo si capisce ancor prima che egli si addormenti con la testa posata nel grembo di lei (o che si assopiscano entrambi sui tappeti di muschio, a seconda della versione – Keats ne scrisse due).
Mentre i bambini di Goethe e Yeats non hanno colpito la fantasia dei pittori, la Belle Dame Sans Merci fu un soggetto molto amato dai Preraffaelliti. E’ sempre ritratta con una chioma fiammeggiante, densa e ampia, che l’avvolge come un mantello, incanta il cavaliere, lo allaccia con onde vegetali. La donna è spesso a cavallo e si china verso il cavaliere; talvolta è colta nell’atto di osservare l’uomo addormentato e ormai vinto. In un caso la si vede in ginocchio, mentre attira irresistibilmente l’innamorato verso di sé, offrendogli il volto da contemplare, le labbra da baciare. Già l’uomo è incapace di vedere altro…
Il rapimento, dicevo, è il comune denominatore. Forme di rapimento sono in effetti il gioco infantile, l’innamoramento, la pulsione improvvisa e totale verso l’Altra cosa: una sfumatura di concentrazione totale, un assorbimento che lascia appunto prosciugati di sé.
In quanto lettori – e non attori – ci sentiamo al sicuro: ma leggeremmo altrettanto spesso, con altrettanto gusto, se non provassimo un brivido di tentazione? Io credo che il successo perdurante di queste poesie non risieda esclusivamente nell'(innegabile) valore letterario, ma anche nella vividezza con cui evocano il legame eterno tra passione e pericolo.
Goethe solo ha raccontato il rifiuto: il suo bambino è felice dov’è, com’è. Il suo bambino è il momento del timore, il sussulto dell’istinto di autoconservazione – ed è l’unico di cui sia chiaro il destino: Goethe scrive chiaramente che ” il bambino era morto” (das kind war tot).
Il fato degli altri è più incerto. E’ più glorioso? più felice? più terribile? Certo il cavaliere è pieno d’orrore, ma quando ricorda l’incontro con la Dama è come se rivivesse ancora il mancamento delizioso di quel momento. E la promessa delle fate, di poter rubare le ciliegie più rosse e intrecciare danze e sguardi alla luce della luna, farebbe vacillare anche un adulto, figuriamoci un bambino.
Cedere, cedersi – si spalancano mondi e felicità che restano inconoscibili per chi non osa, non rischia…
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